Venere in pelliccia

Un film di Roman Polanski. Con Emmanuelle Seigner, Mathieu Amalric Titolo originale Venus in Fur. Drammatico, durata 96 min. – Francia, Polonia 2013. – 01 Distribution

Quando Roman Polanski sfoglia per la prima volta il testo della pièce di David Ives “Venus in Fur” si trova al Festival di Cannes, nel 2012, per presenziare alla proiezione restaurata di “Tess”. Sempre durante il Festival di Cannes, un anno dopo, a braccetto con la moglie Emmanuelle Seigner e Mathieu Amalric, ne presenta la trasposizione cinematografica, la “sua” “Venere in pelliccia”. Thomas è un regista teatrale alle prese con l’ostico adattamento del romanzo erotico dello scrittore austriaco Leopold von Sacher-Masoch che nell’Ottocento scandalizzava le coscienze puritane con una storia d’amore inusitata, di un uomo annichilito e sottomesso alla dominazione della donna. Mentre è al telefono a sfogare misoginia e frustrazioni di una giornata alla ricerca della Wanda Von Dunajev perfetta, arriva lei, Vanda, sboccata e svampita, a chiedere una audizione, vestita da una scollacciata guaina di pelle e il collo adornato da un collare per cani. Quello che si innesca da lì in poi è un meccanismo familiare per Polanski che torna a frequentare, dopo “L’uomo nell’ombra” e “Carnage”, quei territori che gli hanno fatto guadagnare un posto nella storia del cinema. Vediamo perché. Ciò che facilita il lavoro del regista ebreo-polacco è che “Venus in Fur” è drammaturgia perfettamente polanskiana: il ribaltamento dei ruoli, il crescendo erotico, lo sfasamento di realtà e finzione, l’ambiguità che sovrasta le certezze sono – difatti – l’orditura di una poetica che Polanski ha tessuto durante una carriera cinquantennale. Ma la seduzione principale viene dalla possibilità di adattare la pièce girando interamente in uno spazio chiuso – un fatiscente teatro parigino – con solo due attori. Lo spazio chiuso è, per l’ex allievo della scuola di Lodz, il perimetro entro cui la natura umana, quella inconscia e malcelata, inizia a galleggiare in superficie risospinta dalle correnti della conflittualità intrinseca agli individui; è l’homo homini lupus che si concreta tra quattro mura, mentre appena là fuori continua a scorrere la società, i suoi condizionamenti, le sovrastrutture, la corruzione dell’identità. Il dramma da camera è, dunque, il genere entro cui Polanski estrinseca più coerentemente le sue ossessioni; “La morte e la fanciulla”, adattamento di un testo teatrale di Ariel Dorfman, è un kammerspiel teso e greve che dimostra questo assunto – e a cui si aggiunge quest’ultimo film – più del lineare e teatro-centrico “Carnage”. Così come la scelta di un numero esiguo di attori da dirigere trova riscontro fin dal primo lungometraggio, “Il coltello nell’acqua”. Quel che si apprende presto declinando la filmografia del regista di “Chinatown” è che il soggetto del film è sempre un pretesto indispensabile a far emergere le contraddizione insite nell’uomo e nel suo stare al mondo e che realtà e sogno si sublimano in nebuloso onirismo, al fine di negare allo spettatore chiavi di lettura eterodirette. “Rosemary’s Baby” ne è l’esempio più conclamato. Accade così anche in “Venere in pelliccia”. Dal momento in cui i protagonisti cominciano a leggere il copione insieme ha il via una scomposizione infinita dei ruoli al punto che sembra di essere nella sala degli specchi wellesiana de “La signora di Shangai”: Vanda-diventa-Wanda Thomas-diventa-Severin Vanda-diventa-Severin e Thomas-Vanda. I rapporti di dominio si sovvertono, sia durante l’interpretazione del testo di Masoch, sia nel duetto tra regista e attrice: Thomas passa dall’avere il ruolo dominante del regista ad essere sedotto e soggiogato da Vanda. Polanski scombina l’ordine degli addendi e il risultato cambia perché si dirama nella molteplicità, il reale è un gomitolo inestricabile, lo spettatore è smarrito, non sa afferrare la verità e disconnetterla dal sogno. È proiettato in una dimensione parossistica – alla quale corrisponde l’estraniazione (in senso brechtiano) dello spettatore – dalla tangibile tensione erotica sino alla (sur)realtà onirica, sottolineata da un cambiamento della luce, che ha il suo suggello catartico nella danza finale, con il protagonista ormai vittima di un carnefice donna. Oppure è lei-Vanda ad essere stata condotta (nel momento stesso in cui pensava di dominare veniva dominata) verso la volontà di chi ricerca il piacere in una forma di sottomissione edonista? – si chiede la protagonista del romanzo di Masoch. È un sottile gioco di rimandi, questo, che potrebbe continuare all’infinito e che il regista si diverte ad assecondare – probabilmente anche nella scelta di Mathieu Amalric così somigliante al giovane Polanski – senza dimenticarsi di dare un “movimento” al teatro: la carrellata iniziale sotto un cielo plumbeo e piovoso ci permette di entrare “in scena” attraverso il punto di vista di Vanda, l’espediente dei campi e controcampi e la possibilità di muoversi fin dietro le quinte dà all’autore la garanzia di svirgolare dal pericolo di filmare staticamente. “Venere in pelliccia” è, infine, un film che intuisce l’assurdo attraverso l’ironia e cala lo spettatore nell’ambiguità, in un’atmosfera inquieta degna del miglior Polanski.
Francesca D’Ettorre, http://www.ondacinema.it

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